In caso di intervento estetico riuscito male, è errato effettuare un calcolo puramente aritmetico ai fini del risarcimento. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione, con una recente ordinanza del 24 marzo 2021 (n. 8220).
Il motivo? Se la chirurgia estetica ha un risultato insoddisfacente, o addirittura peggiorativo, il paziente subisce danni sia fisici che psichici. Ma le percentuali riconosciute non si sommano.
La vicenda ha per protagonista una donna, che citava in giudizio il medico chirurgo per un intervento di riduzione del seno non riuscito. Il Tribunale di Brescia dava ragione alla paziente e condannava il medico al pagamento di Euro 21.172 a titolo di danno biologico e alla restituzione di quanto speso dalla donna per l’intervento (Euro 5.500). In Appello veniva confermata la sentenza, ma veniva ridotto il risarcimento ad Euro 18.179 (in quanto la percentuale di invalidità permanente riconosciuta si fissava all’8% anziché al 9%) e si rigettava la richiesta di restituzione del compenso. Il risarcimento riconosciuto comprendeva sia il danno fisico sia la riduzione del benessere psicofisico derivante dall’asimmetria mammaria conseguente l’intervento.
Un intervento estetico riuscito male, e dunque un danno estetico, hanno necessariamente un riflesso condizionante la psiche: questo quanto stabilito dalla Corte di Appello. Un principio che non vale solamente per la vicenda oggetto della sentenza, ma per gli interventi estetici in genere.
Per quanto riguarda invece la restituzione di quanto pagato dalla paziente, nel caso in questione i giudici hanno stabilito che l'intervento non poteva considerarsi inutile, avendo prodotto uno degli effetti cui esso tendeva (ovvero la riduzione della massa mammaria, che creava secondo le stess indicazioni della paziente, disturbi alla postura e dolori alle spalle.
La richiesta della donna di vedersi restituire quanto speso veniva, dunque, rigettata, sulla base della seguente motivazione: “La gravità dell’inadempimento non è tale da determinare la risoluzione del contratto tenuto conto del complessivo esito della vicenda e del fatto che, comunque, importanti effetti terapeutici sono stati effettivamente raggiunti”.
La donna si rivolgeva dunque in Cassazione, per ottenere la risoluzione del contratto (e quindi la restituzione della somma spesa) e per opporsi alla riduzione della percentuale di danno riconosciuto. Tra le motivazioni, spiegava che il medico non aveva fornito idoneo consenso informato, non aveva redatto la cartella clinica, aveva peggiorato in maniera permanente la situazione delle sue mammelle e aveva percepito denaro senza rilasciare fattura.
La Corte di Cassazione stabiliva che le percentuali di invalidità che si riferiscono alle singole menomazioni sono solo un metro per misurare il danno, ma non sono necessariamente idonee a porsi a base di un calcolo puramente aritmetico. Quando le menomazioni sono plurime, dunque, non necessariamente bisogna sommare le percentuali di invalidità della singola menomazione (il Tribunale, in primo grado, le riconosceva nella misura del 5% e del 4% per un totale del 9%). Ecco perché, un danno riconosciuto dell’8%, è da considerarsi appropriato.
In merito alla risoluzione del contratto, la Cassazione riteneva fondate le richieste della donna e accoglieva il ricorso cassando con rinvio la decisione impugnata.
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